venerdì 29 dicembre 2017

Playlist Ascolti 2017

Ecco la mia Playlist 2017. L'ordine è casuale, l'ascolto parziale perchè davvero non ce l'ho fatta ad ascoltare tutto quello che è uscito e molte cose mi saranno sfuggite. Insomma, oggi va così, spero vi piaccia!

Red Axes: The Beach Goths
Queens Of The Stone Age: Villains
Peter Perrett: How The West Was Want
New Candys: Bleeding Magenta
Ninos Du Brasil: Vida Eterna
James Holden & The Animal Spirits: The Animal Spirit
Funkadelic: Reworked By Detroiters
Algiers: The Underside Of Power
Curtis Harding: Face Your Fear
Dream Machine: Illusion
King Gizzard: Flying Microtonal Banana
King Gizzard: Sketches Of Brunswick East
King Gizzard: Polygondwanaland
Protomartyr: Relatives In Descent
Heliocentrics: A World Of Masks
Dream Syndicate: How Did I Find Myself Here?
Rolling Blackouts C.F.: The French Press Ep
Feelies: In Between
Chicano Batman: Freedom Is Free
Jesus & Mary Chain: Damage & Joy
Fujiya & Miyagi: S/T
Tamikrest: Kidal
Surfer Blood: Snowdonia
Foxygen: Hang
Ty Segall: Self Titled
Black Angels: Death Song
Julie’s Haircut: Invocation And Ritual Dance Of My Demon Twin
!!!: Shake The Shudder
Downtown Boys: Cost Of Living
Iron & Wine: Beast Epic
Talaboman: The Night Land
Motorpsycho: The Tower
Second Still: S/T
Sharon Jones & The Dap-Kings: Soul Of A Woman
Shilpa Ray: Door Girl
Afous D’Afoous: Tenere
Mythic Sunship: Land Between Rivers
No Strange: Il Sentiero Della Tartaruga

Davide Monteverdi

giovedì 28 dicembre 2017

A New Bunch from Area Pirata 2017.


Album grintoso questo "Between The Lines" dei bolognesi The Classmates, il secondo per l'esattezza dopo l'esordio del 2015. 10 tracce registrate e masterizzate tra Treviso e Chicago che ci restituiscono un power trio che maneggia con personalità spiccata del materiale altamente (e positivamente) radioattivo. Muovendosi tra i meandri spigolosi e affascinanti di certo glam rock e pre punk, per sconfinare senza vergogna alcuna in territori garage e power pop, "Between The Lines" soddisfa infatti tutte le aspettative candidandosi anche come ottimo prodotto italico da esportazione, trainato fin dall'incipit "Clerk" con un piglio che la dice lunga sulle velleità della band. 






Vengono da Teramo le Wide Hips 69, band 75% all female se non fosse per Gabriele l'invidiatissimo batterista, sono potenti e slabbrate e ci regalano il loro nuovo album "The Gang Bang Theory" con un certo qual senso di rude fierezza. Il loro immaginario affonda le radici tanto nei suoni delle L7 quanto delle Runaways, declinati in maniera ancora più perversa, se possibile, seguendo dettami garage e punk qua e là ingentiliti da incursioni soul e glam. Registrato in presa diretta "The Gang Bang Theory" è un vero e proprio cazzotto in faccia a cui rispondi col sorriso ebete: c'è la cover giusta ovvero (You Gonna Make Me) Want You di Sandi Sheldon, c'è l'attitude stradaiola un pò MC5 e Stooges, c'è sessimo politicalmente scorretto a go go.
Insomma anche qui 10 tracce che volano via come il pane, piacevoli, consapevoli e che guardano lontano verso altri mondi, ormai molto più prossimi.
Brave Cristina, Daniela, Lorena.





Davide Monteverdi.



mercoledì 20 dicembre 2017

Emmanuelle Sigal: Table Rase (Brutture Moderne, Cd 2017)



Il nuovo album di Emmanuelle Sigal "Table Rase" è, sintetizzando al massimo, bellissimo!
Senza se e senza ma.
E' proprio un'endovena di sottile goduria che ti invade quando lanci per aria aria le 9 tracce prodotte dalle mani esperte e delicate di Francesco Giampaoli.
Un lavoro davvero completo, dinamico, pieno di belle vibrazioni, suonato ottimamente (e come poteva essere diversamente) da gente del giro Sacri Cuori, modellato con tatto grazie al sagace uso delle tecniche di studio e a corollario di tutto, e di un ascolto piacevole e ripetuto in automatico, c'è pure Tom Waits, coverizzato in "Telephone Call From Istanbul".
L'artista franco israeliana, ora bolognese d'adozione, riesce nella non facile missione di creare un percorso ben equilibrato nella mezz'ora abbondante della sua durata, raccontando leggiadri quadretti esistenziali distillati tra cocktail pop e arpeggi da crooner, battute in levare schizzate di ritmi country folk, ed episodi di jazz swingato declinati in italiano, francese e inglese con una padronanza che spaventa (positivamente) per maturità.
Certo non stonerebbe veder esibire Emmanuelle in qualche club buio e fumoso degli anni 50/60, con piume di struzzo e una corona di zirconi a disegnare la fluente chioma corvina.
Ce la meriteremmo di sicuro, tra ovazioni e richieste di bis, mentre qualche entusiasta accenna passi di danza a due.
A timbrare la caratura immaginifica, e mai conformista, di "Table Rase" un mostro sacro della Dissonanza come Marc Ribot, ospite con la sua chitarra in ben 6 pezzi.
Allora, in casi come questo, è quasi meglio vivere la musica piuttosto che discettarne, perchè si corre il rischio di non centrarne l'essenza con contorni precisi: la percezione istantanea infatti è tutto davanti ad un bagaglio emozionale del genere.
Non sceglierò neppure la classica manciata di canzoni preferite, come ortodossia consiglierebbe, proprio per questo motivo: "Table Rase" è bello per l'impatto globale ed organico come gli episodi della vita che ci attendono.





Davide Monteverdi


martedì 19 dicembre 2017

NO STRANGE: Il Sentiero Delle Tartarughe (Area Pirata/Psych Out, 2017).


I No Strange sono una leggenda. I No Strange sono di Torino, ma potrebbero tranquillamente essere atterrati sulla Terra dopo aver abbandonato Alpha Centauri e Plutone, dopo aver ballato indenni sull'orlo di un buco nero, masticando neutrini iridescenti nel buio rilassante dello spazio profondo.
Saltando da una cometa all'altra, tra una trascendenza e l'altra, con tutto l'amore di cui il Mondo è capace.
Certo non sono per tutti gli album dei No Strange, eppure ti si incollano all'anima dopo 10 secondi, scatenando una ridda di empatia difficile da comprendere fino in fondo.
Non è diverso il percorso seguito da "Il Sentiero Delle Tartarughe", che gli ascoltatori meno sentimentali e pindarici accoglieranno come un inutile orpello nel mordi e fuggi generale del mercato musicale del 2017. Eppure le 10 tracce di etno folk psichedelico, che lo caratterizzano dal primo all'ultimo secondo, hanno ancora il potere di sorprendere facendo leva su trascorsi ancestrali condivisi, ti ipnotizzano senza pretendere una controparte attenta e inducono al riascolto perpetuo, generando sana curiosità nonostante i No Strange non siano nuovi sotto i riflettori del Suono Italiano, per quanto bizzarri poi possano essere i loro lavori precedenti.
Famosi per l'irreperibilità, e le quotazioni collezionistiche, dei loro primi album anche per questa uscita la band di Ursus e Alberto Ezzu ha deciso di attenersi a 2 regolette precise e ben scritte: album in solo vinile (con versione cd in allegato che comprende anche il libro "No Strane E Sogni Correlati") limitato a 300 copie ed una copertina splendida a corollario.
Il resto è una metafora del Viaggio Supremo, che sia fisico o spirituale non conta: "Il Sentiero Delle Tartarughe" è un piccolo gioiello che non farà la Storia, ma contribuirà a regalare tempo di qualità alla vostra vita.








Davide Monteverdi



lunedì 11 dicembre 2017

Spirit Fest: "Spirit Fest" (Morr Music, Cd 2017)


Lunedì di pioggia battente e nel lettore cd gira "Spirit Fest", album di debutto del supergruppo formato dai Tenniscoats, al secolo Saya e Takashi da Tokyo, e da una manciata di collaboratori prezzolati che rispondono al nome di Markus Archer (Notwist), Mat Fowler (Jam Money) e Cico Beck (Aloa Input, Notwist), uniti tanto dallo spirito artistico dissacrante e innovatore quanto dalla continua ricerca in ogni possibile ambito musicale.
Galeotto è stato l'incontro tra i protagonisti nell'inverno glaciale di Monaco di Baviera a fine 2016, cui sono seguiti 14 giorni di full immersion in studio, per dare vita ai 10 episodi che scandiscono la tracklist di "Spirit Fest", praticamente registrato tutto, o quasi, in presa diretta al cospetto di Tadklimp, produttore navigato e dalla spiccata sensibilità.
L'atmosfera generale è super solare, oserei dire vagamente natalizia visto il periodo, e la musica scorre via semplice ed evocativa, sinuosa ed empatica come il migliore Avant Pop d'annata.
Perchè di questo si tratta: di carezze tiepide al tavolo della colazione, di piccole architetture d'amore e di totale dedizione sonora, magistralmente composte ed eseguite dalla band.
Si respira un'aria altamente collaborativa secondo dopo secondo, di interscambio genuino tra le diverse parti, e questo permette ad ogni traccia di catturare un ascolto via via sempre più attento, nonostante i bpm tendano al ribasso e gli amplificatori lavorino al minimo sindacale.
Insomma questo "Spirit Fest", disponibile per il pubblico dal 10 Novembre scorso, piace nella sua totalità: gli arrangiamenti sono scintillanti, gli incastri vocali svolazzano onirici e deliziosi, i ricami elettronici si incastrano alla perfezione con le volute acustiche senza mai frizionare nell'incedere, grazie anche ad un melange di influenze che definisce questo esordio nippo/teutonico come brillante, e aggiornato, esempio di "World Music" mutante.

Davide Monteverdi.









venerdì 1 dicembre 2017

BLACK REBEL MOTORCYCLE CLUB @ FABRIQUE (MI)



Il concerto dei Black Rebel Motorcycle Club al Fabrique (ahimè unica data italiana per chi non ha potuto esserci), è stato uno spettacolo incredibile. E si potrebbe chiudere qui con un “arrivederci e a presto” al prossimo appuntamento, pronti a respirare altra musica e nuove vibrazioni. Ma l’eccitazione post concerto è talmente fuori controllo che non si può non chiacchierarne in maniera più articolata e soprattutto di pancia.


Il power trio composto da Peter Hayes, Robert Levon Been e Leah Shapiro si presenta sul palco alle 21,30 spaccate come un soffio ultraterreno: prima non c’era nulla, poi da una coltre di fumo (costante della serata) e 4 luci in croce spuntano loro, ognuno al proprio posto senza fronzoli né presentazioni di rito. Parte così Little Thing Gone Wild, traccia estratta dal nuovo album Wrong Creatures in uscita a Gennaio, ed inizia anche il viaggio acido targato BRMC. Per ben 2 ore la band di San Francisco ci guida nei meandri anfetamici del suo personalissimo suono: ipnotico, martellante, marziale, sulfureo senza un minuto di pausa esistenziale. Le tracce vengono dilatate, reimpastate e proposte al pubblico come un bolo caldo, saporito, differente dal solito eppure performante in quello che sarà un set scheletrico, minimale, eccezionale.


Sfilano ben 24 canzoni sul palco divise idealmente in 2 tempi scanditi da un breve intervallo acustico in solo, di Robert e Peter rispettivamente, che immobilizza il tempo e lo spazio permettendoci il primo respiro regolare.


I Black Rebel Motorcycle Club sono davvero una band tosta e, con ogni probabilità, l’unica che senza effetti speciali e visuals riesce ancora a creare un’atmosfera sospesa, a volte delicata come un blues sghembo, a volte lancinante e implacabile come il drummin di Leah Shapiro. Semplicemente non c’è bisogno di trucchi e parrucchi quando si sanno scrivere canzoni che poi suoni con un’intensità fuori dal comune e soprattutto senza paragoni con gli emuli contemporanei.


E proprio all’incedere implacabile della batteria di Leah si aggrappano basso e chitarra in un crescendo che partorisce tutte le “hit” o meglio quel che tutti volevano ascoltare nel pit: Conscience KillerLove BurnsBeat The Devil’s TattoSpread Your LoveSix Barrel Shotgun666 ConducerShuffle Your Feet e le nuovissime King Of BonesCarried From The Start e Question Of Faith tra le altre, trascurando però in maniera inspiegabile un buon album come Specter At The Feast.


Il tempo fugge impietoso, il pubblico piuttosto numeroso e composto freme, l’audio è ottimo così come la compagnia, ma c’è ancora tempo per un paio di bis tenuti in caldo per il doveroso saluto finale: ecco allora scivolare via Red Eyes And Tears e finalmente Whatever Happened To My Rock ‘N’ Roll, vera chicca pre natalizia, suonata in una devastante versione psichedelica che ci regala pure lo stage diving di Robert Levon Been a coronamento di un serata in tutto e per tutto indimenticabile.











mercoledì 18 ottobre 2017

COCKROACHES: "REST IN PIECES" (Area Pirata, Cd 2017)


"Rest In Pieces" è l'album giusto al momento giusto.
O meglio, si avvicina Halloween e la manciata di pezzi che i Cockroaches ci lanciano addosso come sanpietrini, e non perchè siamo bellissimi, incarna la colonna sonora ideale per una notte oscura di balli sciolti ed epilettici.
Psychobilly in your face con un piglio energetico e saturo che recupera il meglio dal passato, superandosi nella reinterpretazione dei classici 3 accordi con perizia, intelligenza e un'attitudine punk/grandguignolesca assai lontana dall'essere stucchevole e ripetitiva e che rappresenta il vero plus dell'album.
Insomma i kids di Roma, ormai quartetto super rodato, buttano sul piatto un upgrade assai "contemporaneo" del genere, al punto tale che non sfigurerebbe in nessuna Battle of the Garage in giro per l'Europa.
Le grafiche dell'album sono accurate e super stilose, il background acclarato fin dall'intro, l'interpretazione sull'orlo dell'esaurimento nervoso di Bandido Maldito è la ciliegina sulla zucca sanguinante: "Rest In Pieces" si rivela dunque un secondo lavoro completo e ben orchestrato in tutte le sue sfumature, featuring compresi, grazie al puntuale apporto strumentale di Mr.Hyde (batteria), Greri (chiattarra) e Labanero (basso).
Pioggia di sangue (farlocco) assicurata e divertimento a go go con gli Scarafaggi aka Cockroaches.






Davide Monteverdi



venerdì 13 ottobre 2017

SUB POP PACK REVUE #01


I Downtown Boys sono una vera bomba ad orologeria.
O meglio il loro "Cost Of Living" deflagra già dall'intro di "A Wall" e così via per tutte le tracce di questo primo lavoro marchiato Sub Pop.
Cantate, urlate, scagliate in your face una per una dalla poderosa voce di Victoria Ruiz.
Sorta di avanguardia sonica e iperpoliticizzata del quintetto di Providence capitanato dal polistrumentista Joey LaNeve DeFrancesco.
Produce e mixa Guy Picciotto e per me potremmo chiudere anche qui.
L'ex Fugazi infatti dona rotondità ed ordine all'impellenza della musica, disegnandola perfettamente intorno alle liriche di pura protesta sociopolitica, trasformando il caos in un ordinato manifesto di sopravvivenza urbano e contemporaneo.
Non facilissimo al primo ascolto "Coast Of Living", poi via via godibile e penetrante fin nei recessi dell'anima.
Insomma un pò Fucked Up, un pò X Ray Spex, un pò Fugazi.
E quando entra il sax di Joe DeGeorge tutto acquista definizione e spessore artistico.
35 minuti scarsi di schiaffi in faccia ben piazzati.






La Sub Pop non sbaglia un colpo nella pianificazione delle sue uscite discografiche ed anche per il 3° lavoro dei Metz riceviamo da Seattle l'ennesima conferma: il sodalizio con il power trio di base a Toronto continua il suo percorso creativo all'insegna della schizofrenia musicale più imprevedibile, e alla faccia di qualsiasi mercato orientato al fighettismo.
I Metz pestano sì come fabbri, ma si rivelano professionisti scafati nel fondere istanze post tutto: post punk, post hardcore, post wave.
Difficili eppure immediati nel loro impasto di liriche e rumore, rivendicazioni e iconoclastia.
Se all'equazione basica aggiungete poi la variabile impazzita al mixer, e che di nome fa Steve Albini, il messaggio arriverà ancora più forte e chiaro, "Strange Peace" è un'arma da maneggiare con prudenza.
Un muro granitico i cui 11 monoliti sono assemblati con grande sagacia e maturità.
Tra Wire, Jesus Lizard, Shellac, Gun Club e pochi altri in un continuum spazio/tempo che  affascina e disturba in ugual misura.







Davide Monteverdi.


martedì 3 ottobre 2017

LALI PUNA: "TWO WINDOWS" (Morr Music, cd 2017)


Si è presa un pò di tempo Valerie Trebeliahr per licenziare "Two Windows", 7 anni dal precedente "Our Inventions" possono sembrare un'infinità nel 21° secolo, e soprattutto per curarne la gestazione ancora una volta per la fidata Morr Music dopo la doppia, sofferta, separazione da Markus Archer (Notwist), compagno di vita e membro di un certo peso all'interno della band.
Nonostante tutto la compagine di Monaco impatta discretamente nel 2017, regalandoci un 5° album teso al ritmo, al rinnovamento graduale mantenendo però uno sguardo attento alle origini.
Scorrendo la tracklist e le note informative non passano certo inosservate le prestigiose collaborazioni, vecchie e nuove, che hanno dato il La a una parte consistente del nuovo corso: Dntel, Radioactive Man, Mary Lattimore e MimiCof tutti con una traccia a testa.
Sempre di Indietronica si tratta, delizioso e desueto vocabolo anni 2000, dai canoni estetici meno rarefatti e sussurrati rispetto ai lavori precedenti: un'evoluzione che sorprenderà in positivo i fan dei Lali Puna lasciando piuttosto tiepidi tutti gli altri, quelli che per intenderci si avvicinano a queste atmosfere in cerca di un feedback immediato.
"Two Windows" infatti è sì gradevole, di facile ascolto, concettualmente leggero e solare, ma passa via senza incidere realmente, senza mordere lo spirito e/o il cervello.
Certo, sono minuti di svago orizzontale  quelli che scorrono con "Two Windows", "The Frame", "Her Daily Blank", "Byrds Flying High" e la cover versions di "The Bucket" (Kings Of Leon), ma che regalano un retrogusto di persistente insoddisfazione. Un mix letale tra "il fuori tempo massimo" di una progetto come "Two Windows" e la forma muzak di molte sue tracce, una sorta di tappezzeria senza contesti ben precisi cui adattarsi.
Probabilmente ci vorranno altri 7 anni per ottenere risposte sensate a questi arcani, magari con il 6° album di Valerie & Co. Nel frattempo sopravviveremo comunque, e bene, nonostante i Lali Puna e l'inquieta  Morr generation.








Davide Monteverdi


giovedì 28 settembre 2017

IRON & WINE: "BEAST EPIC" (Sub Pop, cd 2017).



"Beast Epic" è un album delicato, intimo, vellutato, emotivo, centellinato con grazia e stile, contrastato sotto la pelle e talmente comodo in quella zona vicino al cuore, che il tasto on repeat del lettore è diventato incandescente.
Davvero, è stata un'esperienza d'ascolto tutta nuova per me, bucato nell'anima, in un'innocente domenica mattina di metà Settembre.
Nulla di rivoluzionario o copernicano nelle orecchie, anzi, si trova probabilmente in questo stand by esistenziale la bellezza del nuovo e 6° album di Iron & Wine.
La linearità delle composizioni, al netto di qualsiasi nota autoreferenziale, è un lusso disponibile per pochi compositori, così come lo sono le 12 canzoni ricamate di Musica e sentimenti, di arrangiamenti basici e minuti che trascorrono senza incertezze, piacevolissimi, e soprattutto interpretati  con una maturità invidiabile.
Il ritorno in casa Sub Pop corrisponde ad un ideale viaggio a ritroso per Sam Beam ed il suo progetto: ritrovarsi come agli inizi, voce e chitarra, in uno studio spoglio con un pò di amici e qualche bottiglia a maneggiare una materia plastica e generosa, pericolosa e dannata, con le velleità di chi ha già giocato col fuoco, a volte vincendo di misura.
Bravi davvero gli Iron & Wine (considerando tutti gli attori in campo) a sottrarre con maestria, a tratteggiare piccole storie semplici quanto scheletriche che si assomigliano senza mai coincidere perfettamente. La noia è bandita nonostante una narrazione quasi sussurrata e mai sopra le righe.
Per me è stato così il primo incontro diretto e inatteso con "Beast Epic": innocente e disarmato, complice l'indolenza del tiepido mattino di fine estate.
Così mi ha fatto innamorare, senza un vero perchè, la storia dell'artista che attraversa il mondo con consumato disincanto, lasciandosi vezzeggiare da momenti malinconici che ammansisce di esperienza, ma che non inficiano l'atmosfera comunque sognante e luminosa dell'album.
Si dice che dopo i 40 si tirino le somme un pò su tutto e allora mai come in questo periodo Sem ed io siamo stati sulla stessa rotta, ponendo domande con la consapevolezza di non avere tempo per aspettare le risposte.
Ecco cos'è in soldoni il progetto Iron & Wine 2017: folk modificato con bypass, luminoso come il sole d'autunno, avvolgente e protettivo come la coperta di Linus.
Poi canzoni come "Claim Your Ghost", "Bitter Truth", "Call It Dreaming" e "Last Night" restano lì, appiccicate alle pareti di casa per non essere dimenticate, anzi, per non dimenticare.





Davide Monteverdi.

mercoledì 30 agosto 2017

FOUR BY ART: "INNER SOUND" (ArtRec/Area Pirata, Cd 2017).


Ci sono voluti quasi tre anni in studio per apprestare il rientro discografico dei Four By Art, leggendario combo psych/mod con il corpo a Milano e lo spirito nella Swinging London.
Anni spesi a testare su strada il nuovo materiale musicale e a rodare la nuova formazione dopo la dipartita di due dei membri originari, Demetrio e Giuseppe, cui l'album è dedicato.
Il risultato è "Inner Sound", frutto della collaborazione tra Artrecords e Area Pirata: un bellissimo cd a tiratura limitata (300 copie) suddiviso in 13 episodi, dalla grafica strepitosa opera di Grace e dal sapore fresco e danzereccio che ha dissipato ogni dubbio di sorta su questo rientro quasi epocale, dopo la reunion del 2002.
A 30 anni suonati da quel "Everybody's An Artist With Four By Art" che ne sancì lo scioglimento rimane solo Filippo Boniello della formazione originale al timone, sostenuto però da un gruppo coeso di amici/musicisti 
in linea perfetta  con il manifesto estetico dei Four By Art. Vale a dire un rockettone energico sporcato di r&b, psichedelia e garage beat travolgente il tutto poi filtrato in chiave strettamente 60's e di impatto immediato sui garretti degli astanti.
Ottime anche la scelta delle cover da inserite nella tracklist,"Allora Mi Ricordo" dei New Trolls e "Sorry" dei Three O Clock, veri e propri cavalli di battaglia nei loro live infuocati.
Perchè non bisogna scordarsi mai che i Four By Art sono una fottuta party band selvaggia e che, soprattutto, non fa prigionieri.
Hands up per: "I'm Burning", "Living For Today", "Sorry", "Take your Time", "Say Something".





Davide Monteverdi


domenica 20 agosto 2017

EFFERVESCENT ELEPHANTS: "GANESH SESSIONS" (Area Pirata, Cd 2017)


Area Pirata, sempre sia lodata, riesuma questa session degli Effervescent Elephants datata 2013 nell'ambito di un'ampia operazione di recupero di ciò che definiremmo memoria storica, preziosa memorabilia, nuova coscienza di massa e quant'altro all'insegna dell'italian pride musicale.
Impresa titanica certo, da cui non sfugge, chiaramente per merito, la band di Vercelli capitanata da Lodovico Ellena il mastermind della neopsichelia tricolore degli anni 80.
"Ganesh Sessions" fotografa con precisione millimetrica il (probabile) testamento sonoro post collaborazione con Claudio Rocchi del gruppo: le influenze orientali riattate, la devozione quasi totale ai primi Pink Floyd e Syd Barrett, quell'amalgama unica che ha reso le sonorità degli Effervescents Elephant motivo di culto al di là di mode e redazionali.
L'album esce qualche mese fa in confezione digipack limitato a 300 copie e gli 11 pezzi della tracklist altro non sono che reinterpretazioni 2.0 di alcuni loro cavalli di battaglia tra cui spiccano per impatto  "Indian Side", "Radio Muezzin", "My Generation", "It's Raining" e le immancabili cover di "Maze" (Barrett) e "Astronomy Domine" (Pink Floyd).
La vera sorpresa però è "December" brillantissima cover degli Strange Flowers, orgoglio pisano, suonata e vissuta con un'intensità devastante: come se i Dream Syndicate strafatti di acido ed il Paisley Underground tutto fossero nati e cresciuti nella tranquilla provincia piemontese di una dimensione parallela. In un solo aggettivo STUPENDA!
In chiusura si fa apprezzare anche "Astral Raga" la lunghissima composizione (11'23") in memoria di Claudio Rocchi, vero e proprio mentore degli EE, che ha le tinte del viaggio cosmico senza tempo e senza direzione più che di masturbazione estetica.
Resta poi lo spazio per il remix elettronico di "Apollo e Le Muse"a chiudere "Ganesh Sessions", brano scritto a quattro mani proprio con l'artista milanese, e che non stona assolutamente nel quadro d'insieme di questo bel progetto.
Ecco: questi erano gli Effervescent Elephants, dervisci in un'Italia irriconoscibile e forse riconoscente, corrieri cosmici votati all'esotismo e alla psichedelia sixties, sciamani sinceri al netto di pesanti etichette e tristi revivalismi 





Davide Monteverdi.

mercoledì 9 agosto 2017

FOALS @ Circolo Magnolia.



Per l’unica data italiana del tour dei Foals ci si aspettava il pienone che non c’è stato.

Forse, complici le vacanze estive e un periodo di culmine per un sacco di cose, il principio della dispersione ha trovato la sua dimostrazione empirica in un Magnolia comunque vivibile e gioioso, danzante e festoso in una serata mite e ventilata. Il quintetto di Oxford si è presentato sul palco alle 22.30 in punto sciorinando tutto il meglio del proprio repertorio discografico. Quindi apertura con uno Yannis Philippakis che introduce in solo “Mountain At My Gates” alla platea, facendo subito intendere il doppio binario che l’esibizione seguirà. Ovvero l’alternanza matematica di fasi intimiste, che vanno a pescare nel meglio del calderone anni ’80 anglosassone, con i continui crescendo e le fitte trame di chitarra, basso e batteria che a sprazzi raggiungono picchi di sorprendente potenza e tecnica sopraffina. Ecco, il concerto dei Foals è tutto qua! Una spremuta agrodolce che richiama echi di EMOzionale memoria collettiva e la percepibile riluttanza della band a buttarsi in toto nelle braccia del Pop da facile airplay. Abito che, ora come ora, calzerebbe loro discretamente bene: le canzoni giuste ci sono, così come la presenza scenica e i coretti ruffiani per riempire il tempo. Resta il fatto che l’esibizione soddisfa, ma non esplode mai realmente. C’è l’impiccio delle fasi chiaroscurali, forse un pò troppe, a scapito dell’impeto furioso ed è questa sorta di rimodulazione che afferra per le palle solo i fan, ma non convince fino in fondo chi aveva voglia di godersi una serata di musica e qualche birra con gli amici. Complice anche il volume (limitato) della venue, che ad un certo punto ha addormentato tutto in nome di regole che nel 2017 dovrebbero, probabilmente, essere riviste in chiave migliorativa e al rialzo. I Foals, comunque, di riffa o di raffa trovano la via del trionfo nella notte milanese delle prime fila, inanellando quindici pezzi pescati in democrazia da tutti e quattro i lavori di studio: “Black Gold”, “Heavy Water”, “Snake Oil”, “My Number”, “Two Steps, Twice” risultano convincenti e profonde dal vivo , ma solo con “Inhaler” e “What Went Down” in chiusura scuotono davvero le interiora degli astanti. Lasciandoci però senza anticipazione alcuna su quale sarà la direzione del nuovo album in uscita per la fine del 2017 inizio 2018. Bellini, bravini, innocui.